Negli ultimi 10 anni, le imprese “made in China” sono cresciute del 232% e oggi sono oltre 41mila. Praticamente un’azienda ogni 5 residenti. I bar figurano tra le forme d’impresa più ricercate. Valori e normalità quotidiana di una nuova generazione di gestori
A Milano si stanno diffondendo dall’area tradizionale di via Paolo Sarpi, la Chinatown meneghina, verso la parte nord della città mentre a Roma hanno di fatto colonizzato il quartiere intorno alla stazione Termini. Stiamo parlando dei cinesi, una delle collettività straniere più attive in Italia con quasi 210mila residenti e oltre 41 mila imprese individuali che negli ultimi dieci anni, sono cresciute del 232%. Praticamente una impresa ogni cinque residenti contro una media (tra il resto degli stranieri) di una a dodici. Un fenomeno in forte crescita, soprattutto nelle grandi città. Basti pensare che ogni giorno nascono due nuove imprese cinesi a Milano e una a Roma. Le attività preferite? Se la Toscana, come documenta uno studio della Camera di Commercio di Milano del 2012, è la regione dove si concentra il numero maggiore di imprese con titolare di nazionalità cinese (8.422, il 21,5% del totale), la Lombardia è la regione dove opera il maggior numero di imprese cinesi nei settori della ristorazione, bar ovviamente compresi. Parliamo di uno stock di attività composto da oltre 1.600 imprese. La Lombardia ha anche un altro primato: il suo capoluogo attrae infatti il 7% degli imprenditori cinesi che operano in Italia (2.797 titolari) e registra il maggior numero di nuove imprese straniere iscritte, 337 nei primi sei mesi del 2012. A Milano è, in pratica, ormai cinese una piccola impresa su venti.
Al di là delle statistiche, basta girare per la capitale lombarda per rendersi conto di quanto sia massicia la presenza di gestori di nazionalità cinese dietro un banco bar. Si tratta nella stragrande maggioranza di giovani famiglie che invece di aprire il classico ristorante o il negozio all’ingrosso, hanno deciso di buttarsi in un’impresa - come ricordano Lidia Casti e Mario Portanova nel loro libro “Chi ha paura dei cinesi?” (Bur Futuropassato, 233 pagine, 9,80 euro) - che è lontana anni luce dai modelli della madrepatria: dal lay out, niente draghi o lanterne rosse, ai prodotti in offerta, dal caffè ai liquori, che sono tutti di provenienza occidentale.
Potremmo parlare, a tal proposito, di una vera e propria rivoluzione culturale.
A muovere questo flusso di imprenditori non è poi solo la crisi di un settore ad elevata densità di operatori cinesi come il manifatturierio tessile, ma anche una serie di vantaggi che l’impresa bar presenta almeno sulla carta. «Ho scelto di aprire un bar - spiega Andrea Lin, 31 anni, gestore di un pubblico esercizio nella zona est di Milano, tra corso Indipendenza e viale Regina Giovanna - perché quando arrivai in Italia, cinque anni fa, cominiciai subito a lavorare nel settore della ristorazione. Dunque, avevo maturato già una certa esperienza nel settore. E, poi, perché quella del bar è un’attività che non richiede grandi investimenti ed è perfetta per un’impresa su scala familiare. Attualmente, mia moglie è incinta e mi faccio aiutare da un collaboratore. Non escludo però che una volta terminato il periodo di maternità anche lei possa dare una mano nella mia attività».
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Il bar di Lin è sempre aperto, domeniche comprese, dalla mattina presto fino alle 21. E la clientela è fatta per un buon 80% da italiani. I suoi punti di forza: caffetteria e “tavola calda” a mezzogiorno. La storia di Lin e del suo bar, rilevato nell’ottobre 2012 da una parente che a sua volta era subentrata a un imprenditore italiano, è simile a tante altre. Una dinamica con protagoniste giovane coppie cinesi, intorno ai trent’anni, che realizzano il loro sogno di “mettersi in proprio” subentrando spesso, grazie a risparmi di una vita e all’aiuto economico della comunità - famiglia, parenti, amici - a uno stanco e poco motivato imprenditore italiano. Un altro fattore di attrazione che presenta il bar, come ammette lo stesso Lin, è il rischio d’impresa calcolato. In altri termini, un margine, anche piccolo, lo si riesce a portare sempre a casa. E se non s’ingrana? L’attività può essere rimessa sul mercato e se localizzata in aree non troppo periferiche o degradate “rivenduta” in fretta.
D’altronde, che il bar abbia rappresentato e, in parte, continui a rappresentare, un settore rifugio anche per molti giovani imprenditori italiani non è certo un mistero.
Effetto deregulation
Ma sarebbe un errore liquidare il fenomeno dei “bar cinesi” come un sottoprodotto della deregulation che ha spalancato a tutti, stranieri compresi, i cancelli del business della somministrazione. Il tema è molto più complesso. Intanto, gli imprenditori cinesi di seconda generazione vivono il loro lavoro con maggior passione rispetto a quelli di prima generazione che vivevano un po’ passivamente la condizione di gestori. E sono, nella stragrande maggioranza, dei bravi imprenditori che curano la pulizia del locale, la qualità dei prodotti per la prima colazione o per la pausa pranzo e che, soprattutto, sono molto attivi nell’elaborare momenti di consumo capaci di attrarre la clientela.
Non è raro ormai trovare dietro il banco di molti bar di paese o di provincia degli imprenditori di nazionalità cinese che non solo sono riusciti a rivitalizzare locali che altrimenti avrebbero finito per chiudere, privando di fatto un’intera comunità di un servizio, ma anche a ricreare un clima da Bar Sport con ambienti “aperti” all’aggregazione sociale e, aggiungiamo noi, a una reale integrazione tra italiani e stranieri.
Da sottolineare, poi, che in molti casi l’imprenditore cinese subentrante non solo ha rinnovato lay out e arredi del locale, ma ha fatto tesoro dei successi della gestione passata, arricchendola con nuove proposte e servizi. Un esempio? La bella storia di Fan Zhang, giovane imprenditore cinese di seconda generazione, che lo scorso febbraio ha rilevato il Pinguino Blu, gelateria “storica” di via Paolo Sarpi a Milano, è a tal proposito emblematica.
Piccole rivoluzioni
Parliamo di un pubblico esercizio apprezzato dai gourmet del gelato di tutta la città, cinesi compresi. Siamo, infatti, nel cuore della Chinatown ambrosiana che conta per la cronaca oltre 100 imprese “made in China”. «Per via dei lavori di pedonalizzazione di via Paolo Sarpi - racconta Zhang - il Pinguino Blu, allora gestito da due bravi ragazzi italiani, era entrato in crisi. Facendo grossi sacrifici e facendomi aiutare economicamente anche da mio padre, che gestisce un bar sempre in zona Sarpi, sono subentrato alla gestione italiana». Ma Zhang, 28 anni, non si è solo limitato a prendere possesso del bar - gelateria, ma ha dato lavoro anche ai due ex imprenditori e oggi il suo staff è formato da due italiani e quattro filippini. Non solo. Ha lanciato una nuova insegna, ribatezzando il locale Chateau Dufan, trasformato il tradizionale format gelateria in un polifunzionale di design (grazie a un accordo con Seletti, azienda di arredi e complementi di tendenza) che sfrutta tutti i diversi momenti di consumo della giornata, dal breakfast all’aperitivo.
Rapporto con la città
«Avvalendomi anche di un consulente esterno - continua Zhang - ho migliorato il livello qualitativo dei nostri gelati, concentrandomi soprattutto sulle materie prime, selezionandole e testandole una ad una per un prodotto finale che oggi vanta standard molto elevati e che è tra i più apprezzati di tutta la città». La clientela del Chateau Dufan è formata in larga parte da italiani e il locale “vive” di un continuo scambio di relazioni con la città. Ad esempio, è stato uno dei tanti meeting point della Design Week 2012. «C’è ancora molta ignoranza in Italia sul nostro ruolo di imprenditori - aggiunge Zhang - e purtroppo girano storie ridicole che non hanno nessun fondamento. Il mio primo finanziamento è venuto da un banca italiana e non certo dal governo cinese. Molte volte ci guardano come se fossimo degli alieni. Ma anche noi siamo stressati o lavoriamo sotto pressione, proprio come i nostri “colleghi” italiani. Mi ricordo che nelle prime due ore del giorno d’inaugurazione, entrò solo una cliente e noi eravamo dentro in quattro ad aspettare chissà quante persone. Però siamo riusciti a crescere, facendoci man mano apprezzare per i prodotti e il nostro servizio». Concludendo, è bene ricordare che imprenditori come Fan Zhang o Andrea Lin operano in un settore dove ogni anno circa il 10% delle imprese chiude bottega, dando vita a un forte turn over e a un saldo, tra iscritte e cessate, non più sempre positivo. Molte delle nuove iscrizioni sono imprese con titolare straniero, il più delle volte cinese. Ecco forse sarebbe l’ora di considerare questi nuovi soggetti non più come dei meri rimpiazzi, ma delle imprese a tutto tondo. Che meritano rispetto e considerazione.