Considerazioni serie e semiserie sull’ultima sfida per barlady, ideata da Danilo Bellucci, di scena a Super-Bar a Milano
Non si vive di soli fiorellini, alchechengi
e spiedini di frutta. Per un
tempo infinito il bartending declinato
al femminile è stato considerato
più per le sue soluzioni estetiche
che per i contenuti. Quasi si
trattasse di parlare di decoratrici
più che di professioniste a tutti gli effetti.
L’ultima edizione
di Lady Drink, con la regia di Super-Bar, ha messo in
mostra miscele di carattere. Oltre ai soliti drink agrumati,
freschi e leggeri, si è recuperato il rapporto con le miscele
a base di vermouth tradizionale. È come un parente che
ritorna in famiglia dopo tanto tempo: tutte corrono ad abbracciarlo.
Paola Faben vince per la seconda volta il titolo.
Alcuni minuti prima della gara ne dubitava. È ancora
incredula a distanza di molti giorni. L’umilità è di per sè
un talento: o ce l’hai o non ce l’hai. Lady Faben, nonostante
il voluminoso chignon, non si pavoneggia. Si amplia il
divario tra chi sa costruire una ricetta da concorso e chi
no.
Michele Di Carlo, il fine selezionatore delle 80 ricette
in gara, ne è persuaso: «Il 50% delle proposte era di ottimo
livello. Il resto meritava appena
la sufficienza. Il concorso è lo specchio
della realtà di tutti i giorni. C’è
chi lavora con criterio e si aggiorna e
chi resta al passo». Ne danno prova i
bis di Alessia Guerra dell’Hotel Ambassador
di Bibione (migliore negli
after dinner) e della “sparkling queen”
Francesca Raviola dell’Unaway
Hotel-Bologna Fiera.
Facciamoci un
favore: non chiamiamolo più “bartending in rosa”. Primo,
favorito dalla liberalizzazione del dress-code, il colore più
diffuso tra le concorrenti è il nero. Secondo, in un mondo
da maschi come quello del bar, parlare di “rosa” fa pensare
alla storia delle quote. E qui non c’è un panda da salvare,
ma un intero universo ancora da scoprire.