Milano vanta il primato in Italia per il numero e per la qualità dei suoi ristoranti giapponesi, ma Shimokita, è il locale che ancora mancava. Il suo progetto porta la firma del restaurant designer Luca Guelfi, un visionario che ha saputo partorire un concetto innovativo a 360° nel panorama della ristorazione giapponese di qualità. Dalla cucina in miniatura d’autore in stile tapas, che porta la firma di Marco Fossati e Atsushi Okuda, ai cocktail, desserts, arredi, graffiti, illuminazione, design e tappeti tutto ci parla di un Giappone mai visto: graffiante e underground.
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Troppo spesso quando si entra in un ristorante di grido, frutto della creatività di architetti e designer, che puntano sull’effetto “wow”, la qualità dei menu non è all’altezza delle aspettative create dalla magia dall’atmosfera che si respira. Da Shimokita non correte questo rischio, diciamolo subito. Ciò che colpisce quando si entra dal portoncino d’ingresso di via Archimede 14 è sicuramente l’esplosione di colori dei graffiti underground, realizzati dal writer-street artist Mr. Wany, noto per le sue scorribande alla Biennale di Venezia, per rimanere, subito dopo, abbagliati dal bancone fluorescente del bar che espone in bella vista un’ottima selezione di saké. Rigorosamente scelti dalla saké sommeiller Maria Teresa Cristiano, potrete degustarne in purezza, spaziando da quelli adatti all’aperitivo a quelli da meditazione, oppure testarli sotto forma di cocktails, sapientemente miscelati con altri spiriti a cominciare dall’omonimo Shimokita, a base di ginzu, sake e succo di litchi. Da Shimokita la cucina è trasgressiva, provocativa e in miniatura, scordatevi i piatti della tradizione. Qui tutto è frutto di ricerca e innovazione. Contaminazione, ma con gusto, è la parola d’ordine e quindi si attinge a piene mani anche dalla Spagna e dal Messico, oltre che dall’Oriente, ma in formato tapas. Luca Guelfi ha voluto con questa sua nuova creatura presentare un Giappone che ancora non c’era, lasciandosi ispirare dai locali più all’avanguardia di New York e di Tokyo, curando ogni aspetto. “Tutto deve essere frutto di un attento studio, non bisogna tralasciare alcun dettaglio: dall’illuminazione al sound, dal design al servizio, senza dimenticare che siamo in un ristorante e quindi la cucina deve essere al top”, sottolinea Luca. A tradurre in piatti questo concetto sono stati chiamati due pezzi da novanta, in un gioco a 4 mani. L’impostazione nipponica è garantita dal giovane Atsushi Okuda, già executive chef del gruppo Toridoll a La Bottega del Ramen e al Tokio Table e prima ancora allo Zero e al Finger's, locali cult di Milano. L’accento italiano e internazionale porta la firma di Marco Fossati, che dopo un’esperienza al Four Seasons Resort The Biltmore di Santa Barbara in California è tornato in Italia per mettere a frutto la sua esperienza internazionale. Dulcis in fundo vi aspettano i sushi-dessert di Ilaria Forlani. Il dubbio è amletico: Uramaki lampone, lime e menta con cuore di cocco e copertura di sesamo bianco o Nigiri sorbetto mango e passion fruit con top di riduzione di fragola e latte di cocco?