I locali serali ieri hanno sospeso la loro attività. Per decreto (leggi Il testo del Dpcm 9 marzo 2020 e le Faq del Governo sul decreto). Ma in tutta Italia si moltiplicano le chiusure volontarie dei locali, a partire dalle città che più di altre oggi sono toccate dal contagio, ma non solo.
Lo hanno fatto in molte città, da Torino a Milano, a Napoli. Mettendosi d'accordo informalmente o creando dei gruppi di lavoro ad hoc, come le cento imprese di ristorazione napoletana riunite in Brand Partenopei Riuniti (da mercoledì 11 marzo a data da destinarsi) o il gruppo milanese Unione dei Brand della Ristorazione Italiana (da oggi a data da destinarsi): questi ultimi due gruppi hanno deciso di chiudere tutte le loro attività ristorative con il medesimo obiettivo e auspicio: dare il proprio contributo per fermare il contagio.
Un gruppo definito "Ristoratori milanesi responsabili" ha pubblicato una lettera aperta per chiedere se non sia opportuno stabilire la chiusura di tutti i locali, cosa che la Regione Lombardia sta peraltro valutando di fare.
Le indicazioni non sempre sono chiare: come riporta la Fipe nella pagina Prime Faq Dpcm #Iorestoacasa quel che è chiaro è che i bar e ristoranti devono essere chiusi dopo le 18, ma che è possibile effettuare servizio di delivery, evitando che il momento di consegna preveda contatti personali.
Quanto ai gestori di pub, possono effettuare - nei limiti di orario stabiliti - servizio di somministrazione di alimenti e bevande ma non attività ludiche ed eventi aggregativi.
La scelta di tenere aperti
Non è il momento di schierarsi in buoni e cattivi, in pro o contro. In tanti si staranno chiedendo cosa fare. Tenere aperto o chiudere, sempre fino a quando la scelta rimarrà nella facoltà del gestore.
Chiudere è una decisione difficile, dolorosa, anche perché contraria alla propria ragione d’essere: quella di essere luoghi dove le persone possono incontrarsi, socializzare, stare bene. La questione sta proprio qui: nella vita normale, incontrarsi, socializzare e stare bene vanno di pari passo. In questo momento non è più così. Anzi, è esattamente il contrario.
Più ci si incontra, più si aumenta il rischio del contagio. In sintesi: incontrarsi vuol dire moltiplicare le possibilità che altre persone (noi stessi, i nostri familiari, i nostri dipendenti, i nostri clienti) vengano contagiate.
A Milano lo si è già sperimentato: prima si è cercato di esorcizzare, poi si è dovuto affrontare la cruda realtà dei numeri. Numeri che raccontano di una diffusione del contagio che va fermata. Prima possibile. Per limitare i danni, oggi in termini di vite umane. Domani, in termini di tempo che ci vorrà per ripartire quando saremo riusciti ad arginare la piena.
La Fipe fa bene a sottolineare come sia il momento della responsabilità per tutti, imprenditori e cittadini. Una responsabilità difficile, dalle conseguenze traumatiche per migliaia di imprenditori e di lavoratori. Un sacrificio pesantissimo, per il quale ha chiesto una serie di misure di sostegno.
Di fronte a questo scenario, come comportarsi? La questione non è tanto arrendersi o non arrendersi. Ma fare bene i conti. Con se stessi, il proprio locale, la propria clientela. Il locale ha gli spazi sufficienti per garantire il mantenimento della distanza di sicurezza? I clienti sono in grado di mantenerla? Vale la pena rischiare la chiusura per non aver rispettato i limiti, senza contare i rischi che si corrono a livello sanitario?
Restare aperti significa prima di tutto essere certi di saper essere rigorosi del rispetto delle regole. Proprio per il rispetto a quella comunità che è il proprio tesoro da preservare.
Chiudere può essere un’occasione: per dedicare il tempo forzatamente libero a sistemare il locale, a ripensare la propria organizzazione del tempo e del lavoro, a come poter fare le cose meglio e in modo più efficiente, studiare nuove idee e nuove soluzioni da mettere. Magari approfittando dei social per mantenere con i propri clienti quella relazione che è il fondamento della propria attività.