Matrimonio tra cibo e cocktail? La parola a Giorgio Bargiani

Giorgio Bargiani taormina
La nostra intervista a tutto campo al globetrotter pisano trapiantato a Londra. Che non smette di stupire e… regalare sorrisi

Che Giorgio Bargiani fosse eclettico lo si sapeva dagli albori, ma così pugnace non ce l’aspettavamo. Lo raggiungiamo nella suggestiva location del Belmond Villa S.Andrea a Taormina mare per la serata di mixologist promossa da Belvedere, anch’essa nel profondo portfolio del gruppo Lvmh, da lui diretta.

L’atmosfera è quella della romantica rotonda sul mare vaticinata da Bongusto in una calda sera d’ottobre. A questo quadro naturale, impreziosito dal servizio impeccabile del personale di sala, si somma lo show di Bargiani, uno dei primi ad aver capito che l’intrattenimento sta alla base di una grande esperienza perché, come oramai è notorio, un buon drink siamo bravi tutti a farlo (o quasi, ndr.).

Il Connaught Bar di Londra sta facendo la storia recente del buon bere internazionale e proprio su questa frase, mutuata dal concetto del “bon vivre” francese, Giorgio Bargiani ci ha costruito uno stile inimitabile fatto di grande tecnica, professionalità unica e sorriso inconfondibile. Barman nell’animo e per eccellenza, si accende subito quando gli chiediamo delle frequenti commistioni tra cibo e miscelati e di come gli chef, sempre più prepotentemente, bussino alle porte del bar. Da strenuo difensore della categoria, come non ha problemi ad ammettere, non vede di buon occhio il cuoco che s’improvvisa bartender anche se favorito dal blasone di un nome che tutto gli consente. «Quando un grande ristorante inserisce al suo interno una carta drink, non si parla a sufficienza di chi l’ha creata, ma sempre e solo dello chef. Sono due mondi che non si incontreranno mai perché parlano linguaggi diversi. Ben vengano entrambe le cose, ma rispettando le loro diverse identità».

Eppure oggi molti ristoranti propongono una drink list creata sul percorso dello chef.

«La trovo una cosa poco funzionale perché non è immaginabile il suo contrario, ossia un percorso dello chef creato su quello del bartender. Pensiamo a un’esperienza gastronomica formata da sette portate, è già difficile sostenere cinque, sei cambi di vino, figuriamoci con i drink. Anche se a ridotto contenuto alcolico il palato va indubbiamente in confusione. I drink hanno una loro identità, esattamente come il cibo».

Quindi come si dipana questa matassa? Come fate al Connaught Bar?

«Ogni bar e ogni ristorante hanno una propria identità creata su misura dell’occasione e della clientela alla quale mirano. L’offerta food & beverage, che sia più improntata su vino o cocktail, deve rispettare il Dna del locale. Il Connaught Bar, per esempio, è un locale incentrato sulla mixology, con il cibo che fa da accompagnamento. La sua proposition è chiara e viene sempre rispettata. Apprezzo stili diversi di bar a seconda dell’occasione e del posto in cui mi trovo, l’importante è trovare coerenza nella proposta».

A proposito, come vanno le cose lì a Londra? Come si sta evolvendo il cocktail program?

«Bene direi! Da 15 anni il Connaught Bar segue un processo di continua evoluzione, senza mai perdere di vista la sua identità né i valori di base che privilegiano l’esperienza dei nostri ospiti. Il nostro processo creativo è sempre alla ricerca di nuovi spunti di ispirazioni e innovazione, e i più giovani elementi che si sono aggiunti di recente al gruppo sono sicuramente una grande risorsa per il nostro progresso. Ci piace pensare che negli anni la squadra del Connaught Bar abbia sviluppato una sua “sezione aurea” per quel che riguarda il beverage program. I continui viaggi, i contatti con ospiti e colleghi da tutto il mondo, e la nostra inclinazione alla ricerca e alla sperimentazione ci portano sempre a scoprire nuovi produttori, ingredienti e tecniche. Lo stile dei nostri cocktail però rimane fedele a uno stile e un Dna che è proprio del Connaught Bar: classico, ma reimmaginato tramite le nostre esperienze».

Se mi sedessi oggi al Connaught Bar quali novità troverei insieme ai vostri grandi classici?

«L’ultima nata si chiama Synergia e corona quello che è stato l’elemento fondamentale per il nostro bar per 15 anni, ovvero gli ospiti. Tramite i tre capitoli di Synergia, ripercorriamo come dal concepimento di un cocktail, al servizio e alla consumazione al tavolo, riusciamo a creare un'esperienza per i nostri ospiti. Come sempre, la cocktail list è divisa in tre capitoli con cinque drink ciascuno, e ogni sezione presenta diversi stili di drink e diversi profili gustativi per accontentare tutti i palati e le occasioni».

Com’è l'Italia del bar dall'Inghilterra? Siamo avanti o arranchiamo?

«Non penso si possa parlare di vantaggi o meno, ma solo di differenze di mercato e culture. L’Italia è un mercato differente, con una cultura enogastronomica centenaria che una Londra non vanta. In Italia abbiamo un passato, delle tradizioni e degli ingredienti che ancora influenzano i gusti della popolazione, e anche il campo di bar e ristorazione. In Inghilterra la cultura bar e mixology nasce da un melting pot culturale e di gusti giovanissimo, dinamico e in continuo fermento».

Però l’Italia è l’Italia!

«Non c’è dubbio. Insieme a me anche gli altri vertici del nostro bar (Agostino Perrone e Maura Milia, ndr.) sono tutti italiani, come lo chef e buona parte del personale. Inoltre l’Italia sta portando avanti dei trend stupendi come “L’aperitivo Italiano” che velocemente stanno soppiantando gli “happy hour” specie nelle grandi città, ed è una fortuna».

Concordo. Se penso al concetto di “apericena” mi vengono i brividi sia grammaticalmente che come proposta.

«(Sorride) Lo stile italiano che ci piace preservare è un altro e speriamo di preservarlo a lungo. All’estero per questo ci adorano ancora. Abbiamo una materia prima unica e una creatività fuori da ogni immaginazione e, come dico sempre io, “Don’t forget the smile!”».

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