È nato a Lecco, ma è cresciuto in Friuli nell’attività di bar della famiglia, e dopo importanti esperienze presso gli hotel Gleaneagles in Scozia, Cipriani di Venezia e Gstaadt in Svizzera, nel 2000 è sbarcato negli Stati Uniti, a Las Vegas, per iniziare quella che sarebbe diventata una carriera stellare nel mondo della mixology internazionale. Negli anni, Francesco Lafranconi si è distinto per un crescendo di esperienze e vittorie, iniziando a lavorare per la compagnia di distribuzione di bevande alcoliche più grande in America, la Southern Glazer's Wine & Spirits, passando per la creazione di Mr. Coco, cocktail lounge nella Fantasy Tower del Palms Casino Resort, che vanta diversi riconoscimenti, come l’Eater Award per il miglior bar di Las Vegas nel 2019 e finalista a Tales of the Cocktail come miglior bar d’albergo.
Sono numerosi gli incarichi direzionali che gli sono stati affidati in diversi american bar di prestigiose strutture alberghiere, così come i ruoli apicali ricoperti. Tra essi la nomina di direttore esecutivo ed educatore nel comparto degli spiriti e bevande miscelate presso la Southern Glazer's Wine & Spirits, di vicepresidente beverage and hospitality culture di Carver Road Hospitality, società proprietaria attualmente di 8 locali negli Stati Uniti, tra i quali la sala del buon bere che si trova al secondo piano del Civilian, tappa obbligata almeno una volta nella vita per gli appassionati di vermouth: qui ce ne sono oltre 200 etichette.
Sei arrivato negli Stati Uniti nel 2000. In ambito mixology come era la situazione?
Ai tempi non esisteva ancora una vera e propria cultura in tal senso. Si iniziava forse a percepire il vantaggio di utilizzare ingredienti freschi come succhi di frutta tipo lime e limone al posto di quelli pre-confezionati. Del resto, la più tradizionale cultura culinaria americana predilige cibo in scatola o pronto per il microonde, ricco di additivi. A Las Vegas ho creato una scuola per mixology: la Academy di Spirit and Fine Service, grande opportunità di cambiare le sorti della mixology statunitense divenne realtà.
In cosa consiste l’impronta di Lafranconi nella mixology americana?
Ho innovato concretamente quando ho iniziato a lavorare con catene di alberghi e ristoranti a livello internazionale, tra i quali il Four Seasons e l’Intercontinental, tra le più importanti all’epoca. La svolta è stata utilizzare tecniche e ingredienti culinari di pasticceria nei cocktail, come coulis, gelatine, spezie particolari e olii essenziali. Inoltre, ha inciso notevolmente l’aver collaborato con grandi chef stellati come Daniel Boulud, Thomas Keller, e Roy Yamaguchi che lavorano con prodotti etnici e che quindi aprono a più possibilità e abbinamenti. Ho cercato di migliorare “l’aestethic value” sia del drink attraverso una scelta più elevata del bicchiere e delle guarnizioni, ma anche del barware/bartools.
Un respiro internazionale fin da subito…
Diciamo che ho attirato la curiosità, prima di supplier locali, influenzando il mercato del Nevada e poi quello statunitense, per poi evolvere con un’esposizione internazionale grazie a diversi agreement con marchio di spirit, che mi hanno portato a girare letteralmente il mondo e a conoscerne le tendenze in fatto di mixology.
Sono passati più di 20 anni dal tuo arrivo in America. Oggi, grazie anche al tuo ruolo di ambassador, la situazione è cambiata?
Sebbene manchi ancora sostanzialmente una vera e propria cultura del “bere bene”, riferendomi alla qualità verso la quantità, cocktail bar e speakeasy oggi prendono molto più seriamente la propria offerta anche nelle zone più rurali, come ad esempio il Missouri o il South Carolina e il Middle West. Nei primi tempi di insegnamento nell’Academy, parlavo di una dozzina di distillerie di whisky americano in Kentucky, oggi in America si contano attualmente 2100 distillerie. C’è un fervore incredibile, ma persiste tuttavia una grande differenza tra la realtà americana e quella europea, anche per due fattori determinanti. Sto parlando del costo del lavoro e dei volumi di clientela, che in America sono decisamente maggiori per entrambi i casi.
Come incide nell’esperienza nel locale?
Cambia il discorso inerente all’etica del lavoro, con un approccio professionale differente. In America c’è molto meno “pride of ownership” e molti dipendenti si sentono tali, senza ambizione o troppa devozione. In Italia, invece, nei locali si lavora per crearsi una carriera, con la conseguenza di lavorare più ore e con più passione, anche senza essere retribuiti appropriatamente e in assenza del 20% di percentuale mance sullo scontrino. E questo emerge nel clima, nella proposta e nell’esperienza all’interno di un locale.
Invece quali differenze a livello di consumo?
L’americano cena con il cocktail e non c’è da meravigliarsi se ordina un Martini o addirittura un Espresso Martini in accompagnamento alla bistecca. In generale, a livello nazionale questo è il momento dell’agave, della tequila e del mezcal, soprattutto grazie alla spinta lifestyle data dal brand Patrón tra il 2010 e il 2020. Oggi molte celebrità, infatti, stanno investendo in tequila per capitalizzare su questo distillato che, a livello di consumi, è decimo posto per consumo mondiale di bevande alcoliche.
Altri trend in atto?
Dal punto di vista della presentazione, in America si sta tornando al minimalismo, a un approccio giapponese essenziale con un bel bicchiere, un bel ghiaccio e nessuna guarnizione. Ancora oggi siamo un po' indietro con la conoscenza merceologica e c’è molta segmentazione, con accentuata verticalità a seconda dei gusti e delle mode. Solo attualmente, per esempio, si sta iniziando a imparare come usare i vermout e come preservarli correttamente in un ambiente refrigerato.
Ecco, di che mondo stiamo parlando?
Il vermouth è un’esperienza sensoriale unica, trascendente, con un pout Pot-pour-ri di spezie che trasporta in territori lontani, dove trionfano botaniche esotiche particolari. Confronto agli amari, inoltre, il vermouth richiede molta disciplina nell’enotecnica e l’utilizzo di vino di alta qualità. Il vermouth, del resto, rappresenta la storia della nazione. Pensiamo al commercio delle spezie che ha alimentato imperi fin dal 1600, definendo la geopolitica internazionale, ma anche all’aristocrazia torinese che durante la fusione delle due Italie con il Piemonte nel periodo dell’illuminismo in poi, lo consumavano come bevanda dopo teatro. Si tratta di vera e propria impronta culturale.
Dove trova le sue origini?
L’Italia è stata la prima nazione a commercializzare il vermouth nel 1786 con il vermouth di Antonio Benedetto Carpano. Poi seguirono i francesi con una ricetta commerciale del vermouth dry, e poi ancora gli spagnoli. Se Italia, Francia e Spagna hanno una più lunga storia e tradizione in tal senso, pian piano altre nazioni del mondo stanno capendo che ci sono interessanti opportunità di espandere l’utilizzo dei loro vini in ricette come il vermouth.
Come per esempio l’America?
Ad oggi, è in effetti più innovativa nell’utilizzo di assenzio, ma non tutti i produttori di vermouth lo includono nelle loro formule. Tornando alla storia, fino al Proibizionismo il vermouth era abbastanza popolare in America, tanto che anche a New York fino agli inizi degli anni Venti del Novecento veniva gustato piacevolmente e la sua spinta di gloria risale agli inizi anni 70 dell‘Ottocento, quando venne inventato il cocktail Manhattan, di cui è un ingrediente molto importante. Oggi di vermouth ce n’è per tutti i gusti e per tutti gli abbinamenti, dal dry o extra dry che può essere degustato con molluschi o al chinato ideale per i dessert. Io vivo ogni giorno il vermouth, provandolo in ogni luogo che visito, così da impararlo sempre di più. Da circa il 2010 il Negroni ha preso piede e di conseguenza molti brand di vermouth trovano una loro vetrina per proporre nuove formule al di là dei marchi tradizionali in questo fantastico cocktail tutto italiano.
Da grande ambasciatore del vermouth, qual è la sua attualità?
Secondo la mia opinione manca un prodotto di altissimo livello e c’è ancora molto da esplorare nel mondo del vermouth. Il vermouth è una cosa seria, ma è molto simpatica da bere e si basa su un complicato processo di preparazione che necessita di una certa materia prima, di erbe officinali, di una specifica percentuale di umidità delle erbe botaniche, di metodi per preservare il vino e molta cura dal punto manifatturiero.
La Rosevale Cocktail Room
Con lo scopo di creare cultura sul mondo del vermouth attraverso esperienze guidate, Francesco Lafranconi ha studiato un preciso piano per la Rosevale Cocktail Room dell’Hotel Civilian di New York. Qui sono presenti quasi 200 etichette di vermouth in cinque stili diversi da esplorare in base al livello di dolcezza, alla complessità aromatica e al paese di origine.
«La mia intenzione è far decollare il concetto di vermouth che trova nel bar Rosevale il suo epicentro e meta di pellegrinaggio, dove chiunque può assaporare un esempio di civiltà che si manifesta attraverso alta cultura enologica e le giuste spezie - spiega Lafranconi -. Proprio per far comprendere questo rito, ho ideato dei percorsi di degustazione di vermouth. Tra essi c’è il Giro d’Italia, tributo al vermouth prodotto nello Stivale che viene degustato nella quantità di una oncia (30 ml) per ciascuno dei quattro campioni, a cui sono abbinati cibi dolci e salati».
Un locale da Guinness
È al vaglio Guinness World Record la documentazione inviata per insignire la Cocktail Room del primato come più vasta collezione di vermouth al mondo come offerta al bicchiere. «Il vermouth business è iniziato verso il 2015 e adesso è tempo di raccoglierne i frutti. Noi siamo felici di essere pionieri di questo movimento, e se ci saranno altre realtà a superarci come quantità di etichette disponibili, ne saremo contenti perché vorrà dire che abbiamo ispirato e fatto cultura. Important is not follow the trend, but to set the trend. After all, we are not drinking, we are learning».