Il sorriso, la passione e l’ironia insieme alle sue massime più ricorrenti come «Vendere e incassare» e «Molti pochi fanno assai», sono alcuni dei ricordi ricorrenti tra chi ha fatto parte della “famiglia” (l’azienda) creata da Alberto Pascucci, che si è spento ieri a 88 anni. Negli anni Cinquanta è titolare di una bottega alimentare quando decide di realizzare il primo impianto produttivo che poi diventerà la sua attività. I figli Mario e Francesca scelgono di seguire la sua strada (Donatella ne sceglie un’altra) e oggi hanno già fatto il loro ingresso in Torrefazione i rappresentanti della terza generazione. Uomo pratico, concreto, che ha conosciuto anni molto difficili, Alberto ha permesso a Mario di esprimere la sua incontenibile creatività, realizzando il Caffè Pascucci Shop, una formula che presto conquista numerosi Paesi nel mondo. Ai figli il marketing e la creatività, mentre lui ogni giorno seguiva il caffè verde e la tostatura. Quando cominciò a sentire che le forze calavano raccolse i dipendenti in sala mensa: «Sta arrivando un rimprovero» ricorda Lina Di Carlo, grafica nella Torrefazione, invece chiese loro di sostenere Mario, che era sempre in giro per il mondo, ricordando che «voi siete la mia famiglia e anche la famiglia di Mario». Ci fu chi pianse. Noi di Bargiornale ricordiamo la sua disponibilità e la collaborazione, proseguite poi con il figlio e i suoi collaboratori, e ci uniamo al dolore della famiglia. L’ultimo incontro fu all’inaugurazione del Pascucci Moka a Milano, nel giugno del 2018, quando arrivò per osservare il nuovo locale e offrire un sorriso a tutti.
Riportiamo un suo ricordo scritto da Riccardo Gambuti, “tuttocampista” presso Caffè Pascucci.
Cuor contento, gran talento: la lezione di Alberto Pascucci
«Vallo a ricordare uno così. In apparenza, sembra facile raccontare Alberto Pascucci, il fondatore dell’omonima torrefazione di caffè che partendo da Monte Cerignone, zitta zitta, si è presa il mondo: marito affettuoso, padre esemplare, cittadino modello, amico presente, pilastro della comunità, lavoratore instancabile e imprenditore lungimirante, ossessionato dalla ricerca della qualità. La sua dipartita lascia un vuoto incolmabile e per questo, nessuno lo dimenticherà mai.
Tutto vero, non c’è nulla d’inventato eppure siamo sicuri che se fosse ancora qui, diffiderebbe dall’usare certe scontate espressioni e alla sua maniera, inviterebbe a evitare il patetismo: a nessuno piacciono i necrologi e men che meno piacevano a lui perché Alberto Pascucci era un cultore della vita, e dell’esistenza ha saputo gustare gli aspetti più belli, cogliendone appieno il senso. Si dice avesse sempre il piede piantato sull’acceleratore ma non è vero, perché se la cavava pure in staccata: per lui la vita rimaneva una questione di equilibrio e anche per questo motivo non perdeva mai il sorriso.
Al di là di questo, era nota la sua passione per la velocità e in particolare per le moto: le prime sponsorizzazioni, l’amicizia col campione Fausto Gresini e sopra ogni cosa, l’enorme affetto per i Simoncelli, figlio e papà; i trionfi di Marco e il cuore che straripa di gioia; la tragedia di Sepang, il dolore più grande.
Alberto impazziva per quel mondo e ancora negli ultimi anni, quando si presentava al paddock di Misano, ci mancava poco che, sperando di non essere notato, inforcasse uno di quei bolidi. Era il terrore degli addetti di gara: c’è una foto favolosa che lo ritrae sulla linea di partenza mentre dà gli ultimi consigli a un altro dei suoi pupilli, il centauro Niccolò Antonelli.
Non c’era niente da fare, Alberto Pascucci era così: non si teneva, nel senso che era incontenibile. Nemmeno la sedia a rotelle su cui era costretto da qualche tempo, aveva intaccato il suo spirito. Arrivava in azienda e partiva subito in perlustrazione: si informava sull’andamento del lavoro e poi ti liquidava con una battuta sottile, di rado tagliente, giusto nelle rare occasioni in cui gli giravano davvero le balle. Sebbene prendesse il mestiere molto seriamente, e su questo crediamo ci sia poco da discutere, andare in ufficio per lui era come andare in scena: il successo di uno spettacolo durato ben ottantotto anni. Quando si dice la perseveranza.
Alberto Pascucci era un fanatico della vita, come una rockstar ma senza averne la tipica tendenza all’autodistruzione perché lui, la vita, la omaggiava veramente. Da fuori, vedevi che si stava spegnendo e ti preoccupavi per il suo stato d’animo ma poi puntualissimo, immancabile, arrivava in soccorso il suo sguardo allegro e tutti i timori sparivano. Eccola qui, l’ultima, magnifica lezione di Alberto: lo abbiamo visto sorridere fino a quando ha avuto la forza fisica per farlo ed è stato un bene vederlo coi nostri occhi perché se ce lo avessero raccontato, non ci avremmo creduto.
Non avremmo mai creduto all’esistenza di un simile portento, se non avessimo avuto la fortuna di incontrarlo. Grazie di tutto, Alberto; grazie drago: questa volta il caffè te lo offriamo noi».