Condivisione, insieme, accomunati: tre parole con cui in queste settimane ci siamo dovuti confrontare spesso. Condivisione di destini e di difficoltà, ma anche di spazi e di affetti. Vissuti insieme ad altri. Accomunati da un tempo sospeso da costruire e da inventare.
Tempo utile, oltre che indispensabile, per pensare, progettare e programmare la ripartenza. Che molti invitano a considerare come una nuova partenza.
Con il proprio team, il cui contributo sarà fondamentale per creare quel clima speciale e inedito - un mix di sicurezza e calore umano - che permetterà di riguadagnare più velocemente la fiducia dei clienti. Come valutate la vostra squadra? Da Champions League, né carne né pesce o da zona retrocessione?
Abbiamo chiesto a Maurizio Papa, creatore del metodo Time to Lead, come fare per trasformare il proprio team di collaboratori in una squadra da scudetto. «Come sanno bene gli allenatori - spiega - non basta mettere insieme le persone per formare una squadra, né è sufficiente dire a ognuno cosa deve fare. Un gruppo di persone che lavorano insieme non sono necessariamente una squadra».
Papa sottolinea un equivoco di fondo in cui spesso si cade nella scelta dei collaboratori: «Li assumiamo in base alle competenze e poi li valutiamo per i loro valori: puntualità, educazione, rispetto ecc.». Vista dalla prospettiva dei collaboratori: «Ognuno sceglie il posto di lavoro per ragioni proprie, spesso legate alla necessità di dover lavorare. Per creare una squadra occorre portarli a lavorare per la soddisfazione di farlo».
Non con un colpo di bacchetta magica. O meglio: non abbiamo notizie dell’esistenza in commercio di esemplari in grado di produrre un simile effetto, ma se dovessimo scoprirli vi avviseremo per primi.
I quattro bisogni fondamentali
Papa propone un percorso a tappe, che parte dalla soddisfazione di quattro bisogni fondamentali: sicurezza, variabilità, importanza, condivisione.
«La sicurezza è legata al luogo di lavoro, allo stipendio, alla mansione, alla fiducia nel datore di lavoro, nel capo, nei colleghi. Senza sicurezza, le persone si demotivano, restano sulla difensiva e si orientano al compito e non al risultato. La sicurezza, invece, promuove un ambiente sereno e un comportamento collaborativo».
Papa però mette in guardia dalla troppa sicurezza: «Si rischia la monotonia, la noia, il dare per scontato. Ecco allora che va mescolata con una certa dose di variabilità, che significa nuove sfide, obiettivi da raggiungere, abilità da imparare e mettere in pratica, responsabilità precise da portare avanti».
Sicurezza e variabilità devono essere tra loro in equilibrio: «Troppa sicurezza crea un ambiente tipo “ufficio postale”, troppa variabilità rende l’ambiente nervoso e stressante».
Il terzo bisogno chiave è l’importanza: «Ogni persona ha bisogno di essere considerata, che gli venga attribuito il merito di un miglioramento e abbia il riconoscimento dei risultati ottenuti. Se mancano questi elementi, l’effetto è pensare “chi me lo fa fare?” o sviluppare comportamenti polemici, negativi, ostili».
Fondamentali, per sviluppare questo bisogno, i riconoscimenti emozionali per gli obiettivi raggiunti e i premi per i risultati ottenuti, così come le domande riguardo a specifici punti di vista. Anche qui, il troppo stroppia: «Un eccesso d’importanza crea le prime donne, che finiscono per spaccare la squadra».
Il quarto bisogno è la condivisione: «Quando c’è condivisione le persone sono informate sugli aspetti chiave dell’azienda, apprendono reciprocamente e sono unite da un senso di squadra. Al contrario, si sviluppano i momenti di sfogo e le persone sono slegate tra di loro e dall’azienda per cui lavorano».
La soddisfazione di questi quattro bisogni chiave è la base su cui costruire un team proficuo e produttivo per qualunque azienda; a maggior ragione per un’azienda come un bar, basata sulle (buone) relazioni tra le persone: i clienti, certo, ma anche lo staff, dal momento che chi entra nel locale percepisce l’atmosfera che si respira. E, se l’ambiente di lavoro è intossicato o velenoso (dal punto di vista delle relazioni tra le persone che ci lavorano), in qualche modo lo percepirà. E - finita in fretta la propria consumazione - difficilmente gli verrà voglia di tornare a varcare la porta d’ingresso del locale.
Si parte dalla fiducia
«La prima cosa da costruire è la fiducia - spiega Papa -, che nasce attraverso la condivisione. Una cultura della condivisione si crea attraverso riunioni o briefing che facciano nascere l’abitudine di confrontarsi. Le persone devono sentirsi libere di dire cosa pensano e di chiedere ciò che non sanno. In questo modo si rende possibile il confronto, che può essere anche animato. Perché le persone sono interessate a raggiungere l’obiettivo comune ma possono avere idee diverse su come fare. Naturalmente, la sintesi spetterà al leader».
Dalla discussione e dal confronto nasce il committment, l’impegno personale di ognuno: «Non perché tutti sono necessariamente d’accordo, ma perché si fidano: del leader, dei colleghi, del fatto che magari non hanno capito tutto. E di conseguenza scelgono di sostenere la strategia e di impegnarsi a perseguirla, offrendo il proprio contributo. Esattamente il contrario di molti consensi di facciata, in cui le persone dicono sì ma pensano che tanto faranno di testa propria, impazienti che arrivi il momento in cui le cose non funzionano per poter dire, o anche solo pensare, “io l’avevo detto” o “lo sapevo”».
Quando le persone si impegnano personalmente a fare ciò che hanno detto, si crea la cosiddetta accountability, ovvero l’assunzione di responsabilità individuale e, di conseguenza, collettiva: «Le persone mantengono la parola data e cercano di farlo al meglio. Con tutt’altro spirito rispetto a chi dà il proprio ok, ma poi assolve all’impegno preso con il minimo sforzo, disinteressandosi dell’obiettivo e del risultato. O, addirittura, viene meno all’impegno preso».
Il punto d’arrivo di tutto questo processo è un team focalizzato sui risultati di squadra anziché su quelli individuali. «In questi gruppi quando qualcosa non funziona, si cerca di individuare dov’è il problema per individuare la soluzione. E si vince solo quando vince la squadra».
Troppa fatica?
Tutto molto bello, ma sorge spontanea una domanda: perché fare tutta questa fatica? Ne vale la pena? «Senza una squadra coesa, il titolare finisce per impegnare il suo tempo a controllare e farsi il sangue marcio, guardando agli errori o alle cose che non vengono fatte o vengono fatte male. E finisce col pensare di avere in casa dei nemici o degli incapaci, a cui per di più deve pagare lo stipendio. Viceversa, un buon team farà crescere il titolare e l’attività grazie a nuovi punti di vista, più creatività, senso critico e voglia di migliorarsi».