C’erano una volta le catene, grandi gruppi multinazionali che decidevano di mettere una delle tante bandierine sul mappamondo anche sull’Italia, portando nella Penisola format ampliamente sperimentati in giro per il mondo. E decine di migliaia di indipendenti, il cui mondo iniziava e finiva dentro le pareti del proprio locale. O che decidevano di aprire nuovi locali in base al numero di figli cui lasciare l’attività (tot figli, tot locali).
Le une e gli altri esistono ancora, naturalmente. Con le prime che continuano a crescere - non tutte, ma come numero complessivo - e i secondi che fanno sempre più fatica a stare in piedi.
Inutile dare la colpa (solo) al Covid. È cambiato il paesaggio: se prima della liberalizzazione delle licenze c’era spazio per tutti o quasi e di bar ci si poteva campare bene anche senza grandi doti imprenditoriali, oggi non è più così. Più concorrenza, più complessità, più regole hanno reso la gestione (redditizia) di un’attività un lavoro da imprenditore.
«Dal punto di vista imprenditoriale - spiega Lorenzo Ferrari, fondatore di Ristoratore Top - gestire un solo locale può essere più rischioso che redditizio. Da qui la necessità di trasformarsi da barista a imprenditore del bar, da ristoratore a imprenditore della ristorazione».
L'evoluzione della specie
«La pandemia ha accelerato l’evoluzione - spiega Luca Pellegrini, presidente di TradeLab -. Sta cambiando la mentalità: da “faccio da bere e da mangiare” a “faccio business con il bar e la ristorazione”. Sulla scorta di quello che accade in ogni impresa, al crescere delle dimensioni si separano progressivamente le figure e i compiti: chi fa e chi pensa, chi fa e chi gestisce».
«Il Covid ha creato un grande rimescolamento e nuove opportunità - spiega Marco Ranocchia, cofondatore di PlanetOne -: ci sono tanti locali acquistabili a basso costo, titolari che lasciano per limiti di età o per difficoltà economiche, imprenditori extrasettore interessati ad aprire catene di locali, soprattutto in area food. Tutto questo si traduce in nuove opportunità: a cercare di coglierle ci sono molti giovani o giovanissimi energici, coraggiosi, impavidi. Hanno studiato più dei loro predecessori, sono veloci, digitali, social: lavorano in tribù, aggregando diverse competenze e hanno reti di comunicazione estese che permettono loro di farsi conoscere velocemente».
Competenze multidisciplinari e cultura imprenditoriale
Il tema delle competenze è cruciale: far da bere e da mangiare non basta più. E nemmeno farlo bene può bastare. «Per guadagnare chi ha o gestisce un locale oggi deve saper mettere insieme più competenze: sul prodotto/servizio, sui numeri e sul marketing. Un triangolo che sta in piedi mettendo al centro le risorse umane. Tutti elementi da curare maniacalmente» afferma Lorenzo Ferrari di Ristoratore Top.
«Non c’è più spazio per i non imprenditori - rincara la dose Giacomo Pini, ceo di Gpstudios -: chi oggi apre un locale è più formato e più informato rispetto ai suoi predecessori e ha chiaro sia che deve gestire il locale come un’azienda sia che il modello della catena è interessante per le economie di scala che consente di ottenere e per la possibilità, in prospettiva, di vendere. O comunque sa che gestire uno o più locali è un lavoro simile, perché struttura dei costi e organizzazione sono le stesse. La direzione da prendere, insomma, ce l’ha chiara. Semmai quello che non tutti mettono ancora bene a fuoco è come strutturare il percorso da compiere e i passi da fare per arrivare all’obiettivo. C’è più consapevolezza della necessità di avere una cultura imprenditoriale che presenza di una cultura imprenditoriale vera e propria».
I capitali ci sono. E sono interessati al settore
Quel che è certo, è che il mercato del fuori casa è in grande fermento: «Il settore - spiega Luca Pellegrini, presidente di TradeLab - attira un’attenzione crescente da parte di chi fornisce capitali: ai fondi, novità degli ultimi anni, si sono aggiunti investitori extrasettore ma anche family office che investono con una logica di portafoglio per diversificare il rischio. Tutti interessati a sviluppare business con una logica di catena. Dall’altra parte, se è chiara l’utilità di andare in una direzione di progressiva ingegnerizzazione dei processi per sfruttare le economie di scala, è altrettanto chiaro come nel fuori casa non sempre sia un percorso facile o utile. I format a cui questo percorso si adatta maggiormente sono quelli focalizzati sul food. La pausa pranzo, con tempi e budget ridotti, è l’occasione di consumo di elezione per le catene, come dimostra la crescita di piadinerie, pizzerie e, di recente, pokerie, il cui caso di maggior successo è I love Poke. O di casi come l’Antico Vinaio. La formula base è: faccio una cosa, la faccio ultra bene e industrializzo il processo».
Le catene? In Italia poche, ma in espansione. Specie le piccole
In Italia, da sempre, la presenza delle catene è largamente minoritaria e di gran lunga inferiore a quella di altri mercati europei, Inghilterra e Germania su tutti. Ma l’evoluzione è rapida: «Tra il 2015 e il 2022 - rivela Sara Silvestri, consulente di TradeLab - il numero di locali in catena nel fuori casa è cresciuto del 78%, raggiungendo quota 10mila. Ma, soprattutto, è aumentato il loro peso, che oggi supera il 10% del fatturato totale del settore. I bar sono passati, nello stesso periodo, da 1.100 a 2.400 punti vendita, arrivando a pesare un quarto del totale dei locali in catena, per un totale di 90 insegne. Di queste, ben tre quarti sono mini-catene con meno di dieci punti vendita. Il 30% dei bar in catena fanno capo a player locali».
Sono questi ultimi i protagonisti, negli ultimi anni, delle crescite maggiori: «Con la pandemia - afferma Damiano Possenti, partner di Progettica - le piccole catene hanno sofferto, perché avevano capacità finanziarie inferiori rispetto ai big. Ma ora mostrano un dinamismo nettamente superiore nell’inventare format, svilupparli e portarli al successo. Sono soprattutto le grandi città e le regioni del Nord le aree dove il fenomeno delle catene si sta sviluppando maggiormente, ma c’è grande fermento anche in Campania e Sicilia».
Per Possenti i protagonisti del nuovo fuori casa sono fondamentalmente tre: le grandi realtà organizzate, alla McDonald’s o Starbucks per intenderci, gli indipendenti con alta componente di imprenditorialità e gli imprenditori con logiche moderne da catena. «Il diverso livello di imprenditorialità si riflette immediatamente sui risultati - spiega -: i locali che fanno capo ai grandi marchi fatturano in media il 20/30% in più di quelli delle piccole catene. Ma questi ultimi, a loro volta, fatturano il doppio o il triplo della media dei locali indipendenti. I motivi? Lavorano su volumi maggiori e rotazioni frequenti, grazie all’ottimizzazione dei processi con l’aiuto dell’automazione e della tecnologia, hanno politiche e investimenti di marketing importanti, un’alta efficienza e la capacità di selezionare e prendere le location più interessanti».
Cosa cercano gli investitori (come rendersi appetibili...)
La catena, insomma, diventa sempre più un modello a cui tendere: sia per i nuovi imprenditori, che ne colgono le potenzialità di guadagno e le prospettive di monetizzare, sia per gli investitori a caccia di opportunità.
Così, i “matrimoni d’interesse” tra imprenditori e investitori si moltiplicano: con i primi concentrati sul costruire modelli distintivi e replicabili di format che funzionano e i secondi pronti a finanziarne lo sviluppo in cambio di remunerazioni puntuali e di prospettive di guadagni in conto capitale nel medio periodo.
Una figura relativamente nuova e in crescita è quella dei club deal, gruppi formati da più investitori individuali o da famiglie facoltose che puntano a investire i propri capitali in piccole e medie imprese di grandi prospettive con tagli minimi di investimento molto inferiori rispetto ai fondi e l’obiettivo di diversificare il rischio e di garantirsi rendimenti interessanti e ottimi ritorni sull’investimento a medio termine.
«L’interesse dei club deal per il mondo del fuori casa è forte - garantisce Gianni Vitale, titolare dello Studio Vitale Commercialisti di Rivoli (To), specializzato nella gestione di catene -. Il loro interesse si accende in presenza di condizioni precise: i prerequisiti sono una ben definita identità e replicabilità del format, l’esistenza di un manuale operativo ben applicato e il fatto che il founder non sia direttamente coinvolto nel processo produttivo. Dopodiché ci sono i numeri: un Ebitda superiore al 15% e un rapporto tra la somma dei costi di materie prime e personale e il fatturato non superiore al 65%. A queste condizioni sono interessati a entrare con una quota di capitale in cambio di una resa annua sul capitale investito garantita, di regole chiare sulla gestione degli utili - con, di preferenza, una parziale distribuzione - e di una durata dell’accordo prefissata che preveda regole chiare sulla gestione della vendita a terzi. Tipicamente, una call di uscita a tre anni e un’uscita obbligata a cinque, con moltiplicatori dell’Ebitda diversi a seconda che la chieda il finanziatore o il founder».
I clienti delle catene
Ma qual è l’identikit dei clienti delle catene? È così diverso rispetto ai frequentatori dei bar indipendenti? «Sono soprattutto i Millennial e le famiglie con bambini a frequentare le catene - spiega Matteo Figura, direttore della divisione Foodservice Italia di Circana -. Rispetto agli indipendenti, le catene puntano forte sulle promo e sul delivery; quest’ultimo raccoglie il 40% del totale delle visite contro il 18% degli indipendenti. I motivi per cui vengono preferite le catene sono la capacità di offrire qualcosa di nuovo e di diverso, l’interesse che sanno suscitare grazie alla comunicazione e la maggiore attenzione alla sostenibilità».