Un azzardo dedicare la copertina del numero al sake? Non più di quanto eleggere un’etichetta giapponese a miglior whisky dell’anno, come ha fatto due anni fa Jim Murray nella Whisky Bible (nell’edizione 2017 il riconoscimento è andato all’americano Booker’s Rye 13 anni, ultimo esperimento di Booker Noe presso la distilleria di famiglia a Clermont). Perché, dal Giappone agli Stati Uniti, c’è un’onda che dilaga: è quella dei piccoli produttori artigianali. Fini conoscitori delle materie prime, si distinguono per una decisa inclinazione verso la sperimentazione e la qualità, in linea con quel fenomeno di premiumization, su cui sono pronti a scommettere i principali istituti di ricerca.
Dati alla mano, i consumi interni di sake sono passati dagli 1,6 milioni di litri del 1975 agli attuali 0,7, o poco più. Al contrario quelli di sake premium, che costituiscono il 27% del totale, sono raddoppiati e continuano a crescere sia sul mercato nazionale sia su quello internazionale: tra il 2000 e il 2014 il volume delle vendite a valore è pressoché triplicato superando i 115 milioni di yen, equivalenti a 85 milioni di euro.
In realtà si tratta ancora di numeri poco significativi che si basano su una penetrazione limitata ai mercati degli Stati Uniti, della Corea del Sud e di alcuni Paesi asiatici. Ma per i 1300 produttori di sake (di cui pochi giganteschi e molti piccoli artigiani) il vento potrebbe cambiare, e il sake potrebbe aprirsi a nuovi mercati, Italia compresa. Complice, in primis, la notorietà di cui gode la cucina nipponica e, in particolare, quella del sushi cui il consumo di sake è legato. Così a Milano e a Firenze sono nati i primi sake bar, dove sperimentare nuovi modi di servire il sake, anche miscelato. E persino gli attributi green del sake si traducono in un forte potenziale premium. Tra gli ingrediente compaiono: riso, acqua, “koji” e null’altro. Senza contare l’offerta della customer experience che il sake promette, con una storia millenaria da raccontare.
Attributi, ben inteso, che altri spirit possono vantare: dai bitter, vermouth e amari, orgoglio nazionale, al gin, definito dall’Indipendent “il drink del secolo”. Qualità che sapranno senza dubbio giocarsi Tequila, mezcal e grappa, siamo pronti a scommetterci. E che, forse, il vino italiano, almeno nei confronti dei professionisti del bar, non ha saputo giocarsi a eccezione del Prosecco. A buon intenditore…poche parole.