Brand ambassador. Letteralmente significa “ambasciatore della marca”. È una professione diffusa da circa dieci anni. E intorno c’è un sacco di confusione. C’è chi vede il brand ambassador come una specie di tiranno (alcuni suoi clienti), chi lo identifica come un record man di bevute (le famiglie), chi pensa che sia un party animal (gli amici) e chi sostiene che sia abile a divorare i soldi (l’ufficio contabilità). La realtà è molto diversa e l’abbiamo commentata insieme ad alcuni protagonisti del premio speciale, dedicato alla categoria, dei Barawards. E ora rewind. I punti di accesso a questa professione, nata nel settore spirits, sono diversi. Il percorso più comune è quello del barman che, dopo anni al bar, passa al ruolo di ambasciatore. Questo di regola. Poi, chiaramente, ci sono le eccezioni. Come Leonardo Vena, il signor Lucano, che in 6 anni ha fatto 15 volte il giro del mondo per raccontare i valori dei suoi prodotti e della misconosciuta categoria amari in genere. O la Famiglia Nonino impegnata in prima persona plurale, a cominciare dai capostipiti Benito e Giannola Nonino. «Cristina, Elisabetta e io - sottolinea Antonella Nonino - siamo cresciute in distilleria e nostra madre è stata la prima brand ambassador della Grappa. Oggi nostra nipote Francesca, figlia di Cristina, che da piccola era spesso a Percoto, continua sulla nostra strada».
A parte questi casi rari la professione, come detto, è spesso tipica dei bartender. La motivazione che li spinge ad abbandonare il bancone ha varie ragioni: «Ho scelto di lavorare come brand ambassador - ammette Dom Costa - perché non sopportavo più il peso di uno shift di dodici ore. Un lavoro che non finiva mai a cui si aggiungevano le pratiche burocratiche, il commercialista, la banca, la spesa. In sostanza il lavoro mi impegnava giorno e notte, in più, confesso, non sopportavo più la clientela con le sue richieste bizzarre. Oggi, a differenza di altri, non devo recitare il compitino del brand assegnato e seguire le linee guida dei brand owner e brand manager. Ho campo libero di andare oltre e parlare del prodotto a 360 gradi. Più che brand ambassador, mi considero un “evangelista” per conto di Velier. Sono il collante tra azienda, bartender, grossisti, distributori. Il mio compito è educare questi soggetti nonché fare assaggiare i prodotti in catalogo e spiegargli tecnicamente».
Faceva la barman anche Valentina Zaottini, portabandiera di Gancia: «Avevo iniziato da poco e frequentavo tutte le masterclass di Marco Martino. Parlava di prodotto, ma anche dei suoi viaggi e io volevo la sua vita. Sono figlia di un marinaio, ho sangue zingaro nelle vene. Sono diventata un marinaio senza stellette, ma con la passione per i prodotti autentici, quelli con una storia vera da raccontare». È un lavoro che a volte si sceglie, altre si cerca, altre capita. «Dopo quindici anni da barman - ricorda Nicola Piazza di Bacardi Martini - volevo intraprendere nuove sfide cercando al tempo stesso di mettere a frutto tutto il know-how accumulato negli anni».
I brand ambassador sono professionisti che uniscono molto spesso ottimi curriculum a spiccate dote comunicative. «Non avevo scelto di diventare brand ambassador, ma mi è stato proposto mentre lavoravo come bartender al cocktail bar Rita di Milano. Fine Spirits cercava una persona per lanciare un nuovo progetto ed evidentemente ero la persona giusta». Così ricorda Chiara Beretta.
E anche Francesco Pirineo di Compagnia dei Caraibi dice di essere stato chiamato alle armi quasi per caso. «Avevo circa 30 anni ed ero nel pieno della mia maturità professionale come barista. Dopo 12 anni di lavoro in giro per la capitale ricevetti una telefonata: «Rimasi spiazzato, non sapevo cosa fare o chi fosse un brand ambassador. Io pensavo solo a far da bere». Da qui cominciò il lungo iter di selezione, passarono circa 6 mesi prima della firma sul contratto. Durante quel colloquio fece subito presente che non avrebbe cambiato il suo stile o la sua attitudine. Punk’s not dead! Questo era ed è rimasto il suo motto. «La mia scelta fu molto ponderata,ma alla fine fu il risultato di un’osservazione e di risposte ad alcune domande: quale può essere l’evoluzione del lavoro del barista? Dove e come ci si può arrivare? Esiste un limite di età alla mia professione? Intravvedevo 3 opzioni: da grande avrei potuto fare il manager per qualche azienda del settore, diventare imprenditore o diventare consulente. La scelta fatta già la conosciamo. “Da grande” ho scelto di fare quello che sto facendo: il brand ambassador».
Ma quali sono le mansioni tipiche di questa attività? C’è chi si occupa come Patrizia Bevilacqua di Bevande Futuriste di proporre i prodotti rappresentati in miscelazione nell’ambito di fiere o locali, ma anche di fare formazione e consulenza. Ma non tutti hanno questo ruolo jolly. Quello che accomuna gli interpellati è il fatto di conoscere vita, morte e miracoli della marca rappresentata. «Il nostro ruolo - sottolinea Walter Gosso, “portavoce” tra Italia ed estero per Compagnia dei Caraibi - prevede una conoscenza approfondita, non solo del prodotto che rappresentiamo, ma anche della categoria di appartenenza». Per Chiara Beretta si tratta di un mestiere nuovo perché solo negli ultimi anni le aziende hanno capito l’importanza di una persona che sapesse fare da tramite tra l’azienda e il bar. «Il mio ruolo è parlare dei miei prodotti come una bartender e non come un venditore». Le fa eco Zaottini ribadendo la peculiarità della professione: «Il brand ambassador affianca gli agenti, gestisce masterclass, partecipa alle manifestazioni, si confronta con i colleghi del marketing contribuendo a tenerli informati su quanto succede sul campo. Non vende, ma contribuisce a fare cultura sul prodotto, sulla sua storia, su come si utilizza. Deve essere credibile e affidabile. Dico sempre: sono un brand ambassador, risolvo problemi che tu non sai nemmeno di avere». Nicola Piazza, Martini brand ambassador per l’Italia, entra nel dettaglio spiegando la differenza tra ruoli che spesso si confondono. Perché un conto sono i brand advocat o i testimonial che rappresentano una tantum il prodotto. Un altro sono i brand ambassador. «Nella nostra impostazione in Bacardi il lavoro si struttura in 3 pilastri fondamentali: Education, Engagement, Experience. Con il primo pillar condividiamo la storia dell’azienda, parliamo di prodotti e tecniche produttive. Con l’engagement creiamo collaborazioni con i bartender, sviluppando progetti, eventi, drink list e cocktail. Infine, arriva la parte più divertente che è l’experience e consiste nell’offrire ai barman l’opportunità di fare viaggi ed esperienze collaterali alle attività strettamente collegate al brand. Ne sono un esempio le attività che aggiungiamo alla due giorni di visita a Casa Martini o la manifestazione ciclistica La Classica».
Non l’ha neanche scritto sul suo biglietto da visita, ma di certo è uno degli ambasciatori italiani più noti a livello internazionale. Stiamo parlando di Nicola Olianas. «Chiunque lavori per Fratelli Branca è e deve essere un brand ambassador. Io lo faccio su scala globale, altri su scala locale, ma l’attitudine è la stessa. Il mio ruolo specifico è quello di creare la connessione tra il territorio (trade e consumatori) e l’azienda/prodotto. Non faccio masterclass, ma creo momenti di condivisione. Inoltre, aiuto la nostra forza vendita a capire quali sono i valori e le opportunità dei nostri prodotti. Tutto questo “semplicemente” facendo assaggiare i prodotti».
Come dice Francesco Spenuso, da tre anni ambasciatore di Jack Daniel’s, il brand ambassador è una figura che non può mancare nella nostra industry: «Ma fate attenzione a mettere il primo che capita perché potrebbe arrecare più danni che vantaggi. Siamo ambasciatori del brand. Il nostro compito è divulgare informazioni utili al discente affinché esca dalla masterclass con concetti che lo aiutino a capire a 360° il tuo brand. Un bravo bartender può essere un pessimo formatore. Non basta essere un personaggio per dare credibilità a un prodotto». Non le manda a dire nemmeno Alessandro Cattani di Fabbri 1905: «Il rischio più grande che vedo non tanto per i brand quanto per i bartender è quello di “sputtanarsi”, ovvero cedere alle lusinghe del vil denaro e ai facili bagni di folla che piacciono tanto all’ego. Così si rischia di perdere di credibilità, rappresentando marchi magari non proprio al top o ancor peggio saltando “di marchio in frasca” e mettendo l’etica sotto le scarpe».