Un decennio, nella storia del bere miscelato, è poco più di qualche dash di aromatic bitters all’interno di un drink. Talvolta si tratta di gocce trascurabili, altre volte fondamentali. Quando nel 2009 due ragazzi di nome Kirk Estopinal e Maksym Pazuniak si presentarono durante il Tales of the Cocktails di New Orleans dal decano David Wondrich con un volumetto quadrato di poche pagine contenenti alcune ricette, egli sicuramente non li prese sul serio.
Abituato com’era a ricevere le attenzioni di tutti quei bartender che, in quegli anni, stavano riscoprendo o riscrivendo a loro modo la storia del bar.
Invece, si rese conto che nel lavoro di Estopinal e Pazuniak c’era qualcosa di molto diverso dai ricettari del tempo, che prevedevano tutti un laboratorio da piccolo chimico o una fitta rete di contatti diretti con tutti i produttori di frutta e verdura locali. Siamo nel fiore degli anni della cocktail revolution. Quel movimento che, partendo dalle grandi città americane e da Londra, prenderà a poco a poco ogni angolo del globo. I barman stanno riportando in auge antichi miscelati e ricreandone di nuovi, con ingredienti sempre più complessi e stravaganti. Ma, mentre i loro colleghi sfogliavano libri polverosi alla ricerca di un sangaree o di un fix mai scoperto oppure si arrovellavano il cervello in virtuosismi molecolari e home-made assurdi, questi due ragazzi avevano già deciso che non ne potevano più. Volevano mettere un punto definitivo su questa maledetta rivoluzione. Nascerà così “Rogue Cocktails”, un ricettario in cui esprimeranno il loro manifesto, in controtendenza verso il movimento contemporaneo. Ne stamperanno 200 copie - oggi introvabili - che venderanno sottobanco durante il Tales. Era la prima scintilla di quello che, due anni dopo, sarebbe diventato “Beta Cocktails”.
Fuori dai soliti schemi
Ma...che cos’è un beta cocktail? È una nuova categoria di drink, che non tiene conto delle regole dettate dalla consuetudine, delle strutture classiche con cui siamo abituati a pensare un drink. Le ricette che conosciamo non sono dei dogmi, ma delle linee guida sulle quali spingersi oltre i confini. Un beta cocktail può essere fatto nella maggior parte dei banconi ben forniti e non necessita di particolari home-made, ma piuttosto della voglia di prendere in mano quelle bottiglie poco utilizzate, che stanno lì a prendere polvere.
“Chi ha detto che un aromatic bitters debba essere usato solo in gocce? O che un single malt non stia bene insieme a un genever ed una crema di mezcal?” questo si chiedono i due autori, che con il contributo di alcuni amici, creano di sana pianta una nuova categoria di drink pensati per essere strani, curiosi e soprattutto divertenti. Leggendo le ricette contenute nel loro libro molto spesso si pensa che “no, non può funzionare”. Nella raccolta appaiono drink con due once di Peychaud’s Bitter o di Angostura, miscele di due o più amari italiani nello stesso drink, ardite combinazioni tra kummel e herbsaint. Provandole, si rimane stupiti dalla scoperta di gusti nuovi e di cocktail semplici e perfettamente armonici, pur nel loro esser assurdi.
Kirk e Maksym, in quel momento in cui tutto il mondo guardava da un’altra parte, hanno riportato il bar con i piedi per terra, enucleando alcuni precetti (quattordici, per la precisione) che molto spesso - ieri come oggi - vengono dimenticati: un bar esiste per servire clienti, non cocktails. Il bartending è una professione, non uno stile di vita. Non cercare la perfezione, crogiolati nell’imperfetto. Gli ingredienti dei tuoi cocktail non li troverai negli scaffali del mini market, ma tra le bottiglie polverose dietro al tuo banco. I barman stanno dietro il banco e non in giro per il mondo. Il bartending dovrebbe essere una cosa divertente.
A dieci anni dall’uscita di questo libro ancora largamente sconosciuto, i folli ma assennati insegnamenti dei due, sono ancora validi ed attuali coma allora. Uno su tutti, che serva d’ispirazione per i vostri beta cocktails, è “Don’t knock it till you’ve tried it”; non bocciarlo finché non l’hai provato. E, in ultimo ma non per importanza: “it’s just a drink”. E chissà che la conoscenza dei “Beta” non ci porti a sviluppare i “Gamma cocktails” del futuro.