E se insieme provassimo a capire perché i cocktail in bottiglia non sono il problema né dei bar né dei barman? E perché i ready to drink possono rappresentare un’opportunità non solo per chi li produce, ma per piccoli bar, alberghi, ristoranti?
L’anno orribile della pandemia, complice il lockdown, ha portato alcuni gestori ad attrezzarsi per il cosiddetto cocktail delivery. In molti casi si è trattata di pura improvvisazione, dettata dalle chiusure forzate, dalla fame di lavoro e dall’esistenza di regole poco chiare, anzi confuse. I nostri bar, gli stessi ristoranti, specialmente in provincia, non erano attrezzati per affrontare né l’asporto né la consegna a domicilio. Modelli di business che, prima della pandemia, erano decisamente marginali. La grande questione che emerse sui nostri social, con un confronto dai toni accesissimi, era: si può fare la consegna a domicilio di ready to drink prodotti al bar? E quali sono le linee da seguire per non sgarrare?
Bargiornale ha inseguito per mesi l’Agenzia delle Dogane, oracolo in materia, per ottenere una risposta agli interrogativi posti dai lettori. Poi finalmente è arrivata la dichiarazione ufficiale, firmata e ufficializzata da Marcello Minenna, direttore generale dell'Agenzia delle Dogane che riassumiamo: “…Qualsiasi bar che sia in possesso di una licenza di somministrazione di bevande alcoliche, per le consegna al domicilio del proprio cliente, non necessita di ulteriori licenze da parte dell'Agenzia delle Dogane. Questa attività rientra nelle facoltà che il possessore di licenza ha di esercitare la medesima attività seppure in una forma distributiva ulteriore, accessoria rispetto a quella di ordinario svolgimento, necessitata dall’attuale situazione emergenziale”. Ora siamo a settembre e lo stato emergenziale è stato prorogato fino a dicembre, quindi è lecito pensare che questa eccezione sia ancora la regola. Almeno fino a quando non saremo più in balia dell’emergenza sanitaria e le cose rientreranno nei ranghi.
Una serie di alternative in confezioni pronte
Quel che è certo è che la situazione di crisi ha prodotto una risposta incredibile da parte della bar industry. Tra drink in lattina, in bottiglia, in busta o sottovuoto, abbiamo assistito a un boom produttivo senza precedenti. Liquorifici, grandi aziende del beverage, piccole imprese, gestori hanno dato vita un mercato che non c’era e che oggi è in grande crescita. Attualmente un dato specifico per l’Italia non c’è, ma in mano abbiamo una prospettiva globale. Secondo l'istituto di ricerca londinese Iwsr bevande no e low alcohol - che comprendono birra, vino, ready-to-drink e spirit - cresceranno in volume del 31% entro il 2024, trainate dall'incremento dei consumi di Stati Uniti, Germania e Spagna. Sempre secondo Iwsr, nei prossimi anni la categoria ready-to-drink nel periodo 2020-2024 avrà una crescita media annua dell'8% nei 10 maggiori mercati mondiali.
Questo nuovo modello di business però continua a far parlare e discuture. Alcuni lo giudicano un corpo estraneo al mondo del bar, che ruba il lavoro ai bartender e che svilisce la professione. Per altri invece ha significato, come anticipato prima, una terza via di business. Qual è la verità?
La verità è che si tratta di circuiti diversi. Che il bar resta quel luogo magico che è il bar. E chi produce bottigliette, lattine, bustine lo fa per un mercato che non è il cocktail bar. Lo fa per chi ha un baretto sulla spiaggia o un rifugio alpino e non si può permettere un barman. Per chi ha esigenze di lavorare in tempi rapidi (come durante l’assalto alla baionetta di un concerto), per chi non ha una cocktail station o semplicemente non saprebbe dove metterla. Per i minibar degli alberghi, per il ristorante che vuole offrire un cocktail di benvenuto, per chi organizza aperitivi aziendali, conferenze stampa, eventi (anche online), convention, sfilate e quant’altro. Quello dei ready to drink, per tirare le somme, è un mezzo che viaggia su circuiti diversi rispetto al cocktail bar. Anche se spesso e volentieri i creatori di questi cocktail pensati per l’on the go sono bartender straordinari.
Pensiamo, per citare alcuni esempi, a Flavio Angiolillo e ai drink d’asporto del Backdoor43 di Milano; a Lucio D’Orsi e alle sue preziose bottigliette del Dry Martini di Sorrento; alle bottigliette firmate Circus Catania o Cinquanta Spirito Italiano di Salerno; ai ready to drink di Cocktaileria del Golfo progettati da Doriano Mancusi e dal team di Porto51 di Ischia; a Patrick Pistolesi, mixologist per NIO; ai cocktail in lattina del Floreal di Firenze, o a Dom Carella e ai suoi Cok - Cans or Kegs che propone non solo in lattina, ma in fusti destinati al servizio alla spina.
E poi ci sono le grandi aziende del beverage che hanno colto il potenziale di questo “nuovo” settore lanciando sul mercato nuovi ready to drink. Pensiamo a Branca con i suoi Mi-To o Negroni o al nuovo ed eccellente MezzoeMezzo di Nardini. Il processo di creativo di elaborazione The Perfect Cocktail ha seguito invece un percorso diverso. Sono partiti da una formula molto semplice, fatta per piacere a tutti, poi ci sono stati tre anni di tasting a livello internazionale, e soprattutto una grande campagna di marketing che ha saputo intercettare le esigenze del momento. Come i cocktail venduti nello zainetto arcobaleno per il Gay Pride o accompagnati da sex toys di lusso in occasione della Festa della Donna.