Il problema non è parlarne troppo o troppo poco: di donne al bancone di un bar si parla in modo sbagliato. I tentativi più ovvi e ormai meno brillanti (da parte di brand e professionisti stessi) sono quelli celebrativi: una spettacolarizzazione estrema, quasi, della presenza femminile nel settore, fatta di incontri densi di domande che iniziano con “tu in quanto donna”, si concentrano sulle differenze strutturali e non su quelle di trattamento, ancora evidenti e guarda caso portate avanti da “imprenditori” di vecchia generazione: bella presenza allora lavoro in sala, un mantra ancora ridicolmente difficile da estirpare.
Si isola, non si normalizza. Si separa e non si accomuna, non si include, quando a dover rilevare dovrebbe sempre essere, solo, il valore di un o una professionista. Al netto, va detto, di distinzioni che è opportuno fare, perché come si dice, “è vero che siamo tutti uguali, ma giudicare un pesce rosso dalla sua abilità di scalare un albero potrebbe non essere saggio”.
Figure storiche
Chissà se avrebbero mai parlato di “ricetta dal gusto femminile” a Marìa Dolores Boadas (1935-2017), la reìna de coctèles, protagonista di quel Boadas, il bar più antico di Spagna, oggi guidato dal genio di Simone Caporale a Barcellona. Figlia d’arte (suo padre Miguel aveva lavorato a La Floridita di Cuba al fianco di Costantino Ribalaigua), miscelatrice, autrice, oste. Di lei ha scritto lo storico francese del bar François Monti: «Da bambina, dicono, faceva i compiti al piano di sopra del locale, mentre il padre, al piano di sotto, si esibiva nell’originalissima e spettacolare tecnica di miscelazione chiamata throwing. Dopo aver lasciato la scuola, Maria si unì a lui. Dietro il bancone incontrò suo marito, e tutti e tre celebravano un rito profano per i loro parroquianos (i clienti abituali, ma anche i “parrocchiani”) di quella che chiamavano La Catedral. (…) Chiunque poteva entrare in Boadas, purché indossasse una camicia e dei pantaloni. Questo piccolo locale con pannelli in legno era e rimane un tempio del bere elegante».
Chissà se avrebbero mai chiesto di raccontare “come fa a bilanciare lavoro notturno e vita privata” ad Ada Coleman, leggendaria e longeva head bartender del Savoy Hotel di Londra, la Mecca della miscelazione classica oggi destinazione di autentici pellegrinaggi. Non è soltanto per aver posto la firma sulla ricetta dell’Hanky Panky, che “Coley” ha meritato l’ingresso nell’Olimpo dell’ospitalità, né per il suo primato di permanenza (“in quanto donna”, appunto), quanto piuttosto per la perfezione con cui guidava la squadra al bar, l’apprezzatissimo garbo a tratti salace, la cultura che condivideva con ospiti e colleghi. Improbabile abbiano mai chiesto che intenzioni avesse in merito a gravidanze future a Betsy Flanagan, personaggio tra realtà e leggenda: la locandiera statunitense che avrebbe rubato dei polli dalla fattoria accanto al suo locale, li avrebbe cucinati per i suoi ospiti e servito loro dei drink, decorati con le piume più variopinte della coda. Da lì il termine “cock’s tail”, coda di gallo.
Dare voce alla normalità
Si puntano i riflettori sulle donne al bar (magari una sola volta l’anno) per enfatizzare quanto difficile sia per loro “competere” (termine orrendo) con i colleghi uomini, finendo paradossalmente per non permettere mai un vero e proprio livellamento delle condizioni. Dare voce alla normalità è la vera sfida che nessuno sembra però coltivare. Ne hanno parlato, anzi, non ne hanno parlato egregiamente Marella Batkovic, Alice Musso e Monica Noni (assente Elisa Spinoni, comunque coinvolta nel progetto) con la moderazione di Roberta Abate, durante la terza edizione de Le Bartender, sostenuto da Campari Academy e Mr Dee Still. Enfasi sulla discriminazione serpeggiante che ancora è in voga (differenze salariali, di posizione, di visibilità, di stimolo), racconti di esperienze personali e velate denunce al sistema: ma anche discussioni sulle politiche zero waste, sulla sostenibilità, sulla rete di bartender (assente o meno?) italiana, sulla miscelazione analcolica o a bassa gradazione, sulle prospettive future del settore. Come è giusto che sia, perché è permettendo alle bartender (e non barlady!) di sentirsi parte integrante di un meccanismo, e non elementi particolari, che si potrà muovere un altro passo verso la giusta uguaglianza.