Si sente dire che l’ospite è sacro. Javier de las Muelas va oltre: per lui il bar è un tempio, il tempio dell’ospitalità e dell’accoglienza, il bartender è il sacerdote che officia ogni giorno il suo rito: il servizio del cocktail. L’accostamento sembra piuttosto ardito, ma sugli accostamenti arditi de las Muelas ha costruito il suo stile elegante e raffinato. Uno stile unico, frutto di una personalità poliedrica, che combina studi in medicina, passione per l’architettura, studio approfondito degli ingredienti e delle tecniche di cucina, passione per ogni forma d’arte. I suoi cocktail, immortalati in più di un libro, sembrano delle sculture. Ma de las Muelas, a dispetto di un aspetto che fa pensare a un personaggio un po’ alchimista e un po’ scienziato, è prima di tutto un grande imprenditore. Sì, perché a creare oltre 100 varianti del Martini cocktail, come ha fatto negli anni, magari sono capaci in tanti. Ma il vero capolavoro di de las Muelas è stato quello di rilevare un bar storico di Barcellona, il Dry Martini, è di farlo evolvere al punto da trasformarlo, negli ultimi dieci anni, in un brand globale che ha le proprie bandierine piantate in tutto il mondo all’interno degli hotel di lusso delle maggiori catene alberghiere internazionali.
Quest’anno festeggia i 40 anni di vita di Dry Martini by Javier de las Muelas aprendo il suo primo locale in Italia, all’interno del Majestic Palace Hotel di Sorrento. «Esalteremo la grande ricchezza ed eccellenza degli ingredienti locali creando drink che, come da nostra caratteristica, facciano leva su una presentazione d’impatto» spiega.
Come è cambiato il cocktail bar e il modo di bere nel corso degli anni?
Il cambiamento più significativo è che il cocktail bar è passato dall’essere un mondo chiuso, quasi esclusivamente maschile, a un posto più aperto, che accoglie anche le donne. Una trasformazione che ha contagiato anche il modo di bere, diventato più intelligente, più attento alla qualità e più contenuto in termini di alcol. Parallelamente, è cresciuta moltissimo l’attenzione al modo in cui si presentano i drink, dalla scelta dei contenitori alla cura delle decorazioni. Il rischio che si corre, però, è di far diventare più importante il contenitore del contenuto. La qualità di quello che si serve ai clienti deve restare sempre al primo posto.
Oltre che sulle presentazioni, ci si è spinti molto avanti anche nelle preparazioni, adottando tecniche sempre più sofisticate.
Il cocktail e il concetto di perfect serve sono diventati sempre più sofisticati. Anche al Dry Martini la creatività e l’innovazione sono valori fondanti del nostro lavoro. La questione, però, è l’approccio a questi concetti. Guai a dimenticarsi l’obiettivo per cui facciamo tutto questo. Che è: soddisfare ilcliente. Per questo il nostro punto di partenza sono sempre le loro osservazioni, il loro sentire. Negli ultimi anni invece sembra essersi scatenata una sorta di ossessione collettiva per diventare quello che fa la cosa più strana, più stravagante, più particolare. Spesso finisce per diventare un esercizio di stile fine a se stesso. Il rischio di questo approccio è che il bartender finisce per ergersi a protagonista incontrastato dello show. Nella sua testa, il bancone diventa il suo palcoscenico su cui si esibisce per la presunta gioia dei suoi clienti. Così, il bar perde la sua essenza: quella di un luogo dove le persone vengono a incontrarsi e a star bene. Vogliono bere bene, non hanno bisogno di tante informazioni o tante spiegazioni e tantomeno gli interessa venire a vedere uno spettacolo. E non dimentichiamoci che negli ultimi 50 anni forse l’unico nuovo cocktail diventato un classico è il Cosmopolitan. Per il resto, si bevono i drink di cent’anni fa: ricette semplici, di 2-3 ingredienti al massimo.
Un altro dei nuovi miti è il food pairing. Quanto è moda e quanto invece può esserci di sostanza?
Al ristorante Speakeasy del Dry Martini di Barcellona lo proponiamo con successo da più di dieci anni. Abbiamo tre menu nei quali abbiniamo a ogni piatto un cocktail. Del resto, cuochi e bartender fanno lo stesso lavoro: prendono degli ingredienti e li trasformano in una sinfonia di gusti. Che deve essere buona per il palato e per lo stomaco, non solo per la foto.
Come nascono le nuove creazioni: menu, cocktail, libri e tutto il resto?
Il lavoro a cui mi dedico maggiormente è pensare. Pensare a nuove idee. Le migliori nascono dalle contaminazioni con altri mondi: l’arte, l’architettura, la fotografia. Il nostro lavoro è simile a quello di un compositore, che lavora alle varie partiture fino a creare una melodia che possa essere suonata da tutta l’orchestra. Un bar per far stare bene le persone deve avere un’anima. E l’anima la creano le persone che lavorano lì tutti i giorni. Ma per creare uno spirito d’accoglienza devono saper lavorare bene in squadra. È come nello sport: tante ottime individualità difficilmente fanno una squadra vincente. E una squadra, per diventare una squadra, ha bisogno di tempo. Per questo la stabilità del gruppo di lavoro è un elemento fondamentale.
Come si fa a gestire tanti Dry Martini in giro per il mondo?
Innanzitutto scegliendo le persone giuste per ogni compito. Anche la formazione è fondamentale: ogni 15 mesi facciamo 2-3 settimane di training intensivo a tutta l’equipe di ogni bar, per fargli conoscere i nuovi drink, i menu ecc. Per il resto, combattiamo quotidianamente contro i nostri nemici: la cattiva gestione del tempo, la fretta, la disorganizzazione.