Patria di alcuni dei liquori più famosi al mondo, diventati nel tempo dei brand rinomati, l’Italia oggi sta conoscendo una ripresa della liquoristica artigianale. Giovani imprenditori recuperano vecchie ricette dimenticate, o ne creano di nuove, e il mercato
si arricchisce di un’offerta sempre più stimolante.
Il revival che sta investendo negli ultimi anni il mondo della mixology è paragonabile a un fiume in piena al cui interno “spingono” diverse, singole, correnti che rendono il tutto una massa in movimento che oggi nessun osservatore può ignorare. Ma se, appunto, la visione esterna è data dalla moltiplicazione dei cocktail bar, dal recupero di ricette che fino all’altro ieri sembravano sepolte dal tempo, dall’elevazione, in qualche caso, al rango di rockstar di alcuni barman e barlady, scrutando all’interno di questo fenomeno si possono cogliere alcune linee guida.
Come, ad esempio, la vitalità del fenomeno gin, ben lungi dal placarsi, la moltiplicazione e la differenziazione delle toniche, la nascita di nuovi vermouth che provano a rosicchiare il predominio storico dei grandi brand, la riscoperta di distillati un po’ di “confine” come Tequila e mezcal, la crescita del mercato luxury e collezionistico, quando non di vero e proprio investimento finanziario, per whisky e rum e, infine, lo sviluppo arrembante dei nuovi liquori. Liquori quasi sempre creati da giovani imprenditori o, se non altro, di prima generazione. Parliamo non solo di professionisti del bar, ma anche di semplici appassionati che hanno deciso di investire tempo e risorse in un mercato certamente fertile come quello della mixology ma, allo stesso tempo, fortemente competitivo.
Italia, terra di ricette-tesoro e nuove sperimentazioni
Già perché di liquori l’Italia ne ha sempre prodotti centinaia, se non migliaia. Elaborati sin dalle origini della categoria nei laboratori delle farmacie, ma anche nelle case di privati cittadini che si sono poi tramandati la ricetta di generazione in generazione. Alcuni di questi sono diventati nel tempo dei brand internazionali, capaci di dominare il loro segmento di mercato con percentuali bulgare. L’elenco potrebbe davvero essere interminabile anche perché la categoria dei liquori, da definizione legale, è piuttosto onnicomprensiva e ci finiscono dentro bitter, amari e in pratica “qualsiasi bevanda spiritosa con alcol di origine agricola neutro, di gradazione superiore ai 15% vol e non superiore ai 55% vol con contenuto minimo di zucchero di 100 grammi litro”.
I grandi nomi sono noti a chiunque, talmente radicati nella cultura italiana che basta citare il brand per capire di cosa stiamo parlando: dl Campari a Cynar, da Disaronno a Strega, da Fernet Branca a Sambuca Molinari, da Montenegro a Vov, che sarà pure un po’ âgée ma poi te lo ritrovi servito in versione “Bombardino” su tutte le piste da sci. Alcune delle aziende che li producono sono parte della nostra storia da secoli: Luxardo, celeberrima per il suo Maraschino, ha festeggiato da poco i suoi duecento anni di vita; Casoni, in terra emiliana, apriva i battenti nel 1814 mentre Napoleone, all’isola d’Elba, rimuginava come ritornare in Francia, e Gaspare Campari perfezionava il suo bitter negli anni in cui la penisola italiana raggiungeva l’agognata unità nazionale.
Tuttavia la storia, le glorie e il crescente successo di questi marchi potrebbero avere come logica conseguenza anche un certo “ingessamento” del settore liquoristico che invece, negli ultimi tempi, sta conoscendo una sorta di primavera. Nuovi bitter, nuovi amari, nuovi nettari o elisir mai pensati e visti prima, liquori ripescati in inesauribili scrigni familiari, stanno dando nuova linfa a un comparto che, si poteva presumere, sembrava “tutto esaurito”. Invece una nuova generazione sta salendo alla ribalta, consapevole che innovare si può sempre, e che il mercato non è un recinto chiuso per definizione, ma un universo in continua espansione.
«Ben vengano nuove aziende liquoristiche», è il commento di Michele Di Carlo, “gustosofo” come ama definirsi, esperto di lungo corso e attento osservatore dei nuovi trend. «A patto che siano serie, che abbiano le idee chiare e che non s’improvvisino solamente perché il momento è favorevole. Credo che lo spazio per i piccoli ci sia, se hanno qualcosa di valido da proporre e da raccontare. La diversificazione del gusto amplia la possibilità di scelta per i professionisti del bar così come per i consumatori e questa è certamente una notizia positiva». Alcuni dei protagonisti di questa sorta di nouvelle vague liquoristica tricolore li potete leggere in queste pagine, ma molti altri nomi non vanno dimenticati. A partire da Ivano Trombino, mente creativa del Vecchio Magazzino Doganale che, dalla Calabria, è riuscito a ottenere riconoscimenti internazionali per le sue “creature” come l’amaro “importante” Jefferson, il bitter Roger e Madame Milù, definito come il “liquore da bere al Bisogno”. E che dire di Giuseppe Gallo, barman trasformatosi in imprenditore, che con il suo Italicus, un rosolio di bergamotto lanciato sul mercato nel 2016, ha prima firmato una partnership strategica con Pernod Ricard, finalizzata a sostenerne l’espansione sui mercati internazionali, e poi a febbraio di quest’anno un accordo esclusivo di distribuzione sul territorio italiano.
«Ci sono diversi segnali che vanno colti - sottolinea Di Carlo -. Il primo consiste nell’assistere a una certa standardizzazione, quando non a una vera e propria decadenza di alcuni grandi brand dovuta proprio al loro gigantismo e alla loro padronanza del mercato. Ciò lascia spazio di manovra a nuovi imprenditori che possono inserirsi con prodotti d’eccellenza e trovare un posizionamento nel canale Horeca, che poi è il canale al quale tutti i nuovi e piccoli guardano. Certo, su quest’onda surfano anche imitatori, dilettanti allo sbaraglio, personaggi che pensano sia un business facile. Ma ci sono anche quelli bravi. E dopo aver vissuto un’epoca di quasi sterminio della complessità e della varietà aromatica, ben venga questa rinascita. In altre parole, se da dieci amari passiamo a cento sono felice. Anche se non tutti questi cento amari saranno memorabili».
In effetti in tutti i settori, da quello della birra artigianale a quello del gin, la “moda” creata dal successo di alcuni trascina sul “carro dei vincitori” gli altri. Poco male perché sarà il mercato a fare, prima o poi, una necessaria selezione. E se non è il mercato a farla, c’è da scommettere che alla fine emergeranno le nuove imprese o iniziative che hanno un autentico legame con il territorio e che guardano più alla qualità che al marketing. È il caso, ad esempio, della Compagnia della Genziana, associazione abruzzese nata circa un anno fa dalla passione di Silvio Pacioni, che di mestiere fa il dentista, ma che ha il cuore dedicato alla tutela della tradizione liquoristica abruzzese. Lo scopo dichiarato dell’associazione è quello di sostenere le piccole realtà locali, possibilmente incentivando ristoratori e barman a riconoscere e valorizzare il lavoro dei piccoli produttori. Perché, si sa, una delle conseguenze del più che positivo incremento e della diversificazione dell’offerta è quella di rendere più complesso il meccanismo di riconoscimento e di selezione di brand e prodotti per lo più sconosciuti o ancora privi di curriculum. Un lavoro da professionisti. *
Altre case history citate nell'articolo (Bargiornale, settembre 2021)
Jean Robert Bellanger, co-fondatore Adriatico
Flavio Angiolillo, co-fondatore Dripstillery
Bruno Vanzan, presidente Iovem
Federico Cremasco, fondatore Fred Jerbis
Flavio Esposito, coiondatore Bespoke Distillery