Il sake inizia a comparire sulle nostre tavole sempre più spesso ed è già da qualche tempo che lo si incontra nelle cocktail list dei bar più sperimentali e contemporanei. Quello che per noi è un fermentato ancora poco conosciuto, a bassa gradazione ma dal sapore particolarmente complesso, è in realtà per il popolo giapponese un prodotto quasi filologico.
Il Giappone è la terra del sake, che si ottiene da una produzione di riso differente rispetto a quella del riso da tavola in quanto il processo non è così diverso ma il tempo di raccolta è posteriore. Anche nelle zone dove da più anni è radicata questa specifica produzione si sta vivendo un momento di crisi del lavoro nei campi, simile a quello che si cerca di combattere nel nostro Sud, ma che difficilmente vede nel breve termine una possibile svolta. «L’età media degli agricoltori è molto alta nonostante vi siano numerosi professionisti under 40, ma ahimé, per ora, le retribuzioni restano ancora basse. Sono anni che cerchiamo di lavorare con continuità con una serie di produttori scelti e che cerchiamo di stimolare e aiutare finanziariamente anche più del dovuto ma nonostante questo l’affezione per il lavoro agricolo non è qualcosa di facilmente trasmissibile». Sono le parole di Yasunobu Tomita, oggi alla guida di una delle sake brewery più conosciute al mondo oltre che storicamente più antiche del paese.
Tomita Shizu nasce sulle coste del lago Bika, nella prefettura di Shiga, dove il clima è fresco e nonostante le altitudini siano relative le nevicate invernali abbondano. Il lago funge da serbatoio idrico naturale e raccoglitore di acque piovane anche per le cittadine circostanti. Questo aspetto spiega la vocazione particolarmente agricola di queste zone, dove soia e riso sono sempre state estensivamente coltivati. Attualmente, solo nei pressi della cittadina di Kinomoto, sono presenti tre centri di trasformazione della soia, due distillerie di sake e fino a qualche anno fa (r)esisteva una produzione di aceto che ora non è più operativa.
500 anni di storia
Tomita Shizu è una delle sake brewery più antiche del Giappone, originaria di Kinomoto e fondata nel periodo Tenbum e Yasunobu, rappresenta la quindicesima generazione che porta avanti questa elegante casa di distillazione artigianale. La sede attuale è rimasta quella di un tempo, costruita interamente in legno nel periodo Edo, quindi risalente al 1530 circa. Qui si lavora ancora seguendo i metodi tradizionali, attingendo dalle acque sorgive del vicino monte Ibuki e utilizzando riso biologico di produttori scelti. «Il nostro sake è locale e racconta il territorio in cui nasce, tanto che il 75% del riso utilizzato è prodotto e raccolto in questa zona. Ad oggi abbiamo stipulato un accordo con sei produttori di riso (sake farmers) che lavorano per noi mentre per quel 25% che resta non contrattualizzato viene in ogni caso coltivato in questa stessa prefettura» ci racconta Tomita.
Qualità del riso, dell’acqua e specificità del suolo
Oggi il costo del riso oscilla tra i ventimila e i trentamila yen ogni sessanta chili – trentaduemila esagerando. Quello su cui si focalizza sono la qualità del riso, la qualità dell’acqua e la specificità del suolo. Ricey and hearthy così viene descritto in genere questo territorio. «Attualmente usiamo cinque varietà di riso, che non mescoliamo in quanto ogni nostro sake è un Single Variety.
Dalla raccolta all’imbottigliamento passano circa due mesi per una produzione totale di circa 180.000 bottiglie. Considerando che venti grandi compagnie detengono il 60% della produzione nazionale, tutte le altre distillerie sono piccole, a conduzione familiare o artigianale e ognuna con un proprio segreto custodito» ci spiegano.
Tra i produttori più giovani e appassionati iniziano a diffondersi anche qui le prime sperimentazioni di coltivazione in biologico e complessivamente l’attenzione per mantenere questi terreni “puliti” e il più possibile liberi dai pesticidi è un impegno accolto da tutta la comunità.
Prodotti che esaltano il territorio
La prefettura di Shiga è nota anche per l’uso massiccio della fermentazione come tecnica di conservazione di cibo. Anche per il sushi, per esempio, si usa una speciale tecnica di fermentazione malolattica delle carni che vengono farcite di riso e sale e lasciate riposare anche per sei o sette mesi. Il cibo che ne deriva risulta particolarmente carico di umami, sapido e di conseguenza occorre poter avere un sake capace di contrastare gusti così forti, con un carattere ben preciso, acido ma fresco, complesso ma da pasto.
La prima scelta in questo senso è stata nei confronti della varietà di riso. La varietà Wataribrune, autoctona di Shiga ma che fino a qualche anno fa rischiava di scomparire, è stata recuperata dai coltivatori locali nel tentativo portarla ad essere la varietà più diffusa sul territorio.
La seconda particolarità riguarda la pulizia del riso, direttamente proporzionale alla purezza e all’intensità di gusto. Se generalmente si parla di seimaibuai (rice polishing ratio) pari al 40% in questo caso si parte spesso e volentieri da un riso pulito dal 60%. Questo processo prevede un lavoro enorme da parte dei produttori che se vogliamo si ritrova totalmente nelle bottiglie, cariche a questo punto di un liquido particolarmente elegante, limpido e prezioso.
Il testa di serie della maison si chiama Shichihinyari ed è realizzato con Wataribrune pulito al 77%, con un gusto asciutto e una grande intensità. Un prodotto che esalta il territorio, il riso cresciuto con acqua pura e i produttori che se ne prendono cura.
Infine, parlando di artigianalità del processo, Tomita utilizza ancora gli antichi barili di legno di un tempo per la fermentazione. Avvolti da strisce di bambù che tengono strette le assi, la loro manutenzione è molto complessa e questo è uno dei motivi che li sta facendo progressivamente sparire – specialmente nelle nuove realtà - in favore di contenitori di acciaio (attualmente sembra esserne rimasto un solo produttore in tutto il Giappone).
I primi invecchiamenti
Guardando al lavoro delle grandi cantine francesi e al mondo del vino in senso ampio, anche in questa distilleria secolare non mancano le sperimentazioni con i nuovi prodotti. Ecco, quindi, che dal 2010 si stanno iniziando a sperimentare i primi invecchiamenti, una pratica non molto diffusa tra i produttori di sake, ma che si spera possano aprire nuove frontiere e regalare tra qualche decina d’anni risultati interessanti. L’invecchiamento avviene direttamente in bottiglia, conservate a dieci gradi centigradi, e si noterà un progressivo ingiallimento del liquido, che più passa il tempo più acquista sfumature di colore ambrato.
Si sposa bene anche alle ricette occidentali
Per quante informazioni ci arrivino, da molto lontano è sempre difficile cogliere tutte le sfumature di un prodotto così culturalmente radicato quindi se vi capitasse di incontrare un sake sommelier nella vostra prossima cena giapponese vi potrebbe essere di grande aiuto. Yasunobu ci spiega che «Il sake può essere bevuto tranquillamente pasteggiando, in abbinamento a piatti particolarmente saporiti comprese ricette occidentali. So che molta gente pensa che sia qualcosa da abbinare esclusivamente solo ai nostri modelli di cucina ma vi invito a considerarlo più alla stregua di un vino e ne resterete piacevolmente sorpresi. Provatelo per esempio con l’anguilla laccata se volete restare sul tema, oppure a dei formaggi particolarmente stagionati o muffati».
Bevuto caldo o freddo, nelle sue versioni filtrate o meno, ricavato da riso rosso o riso bianco, nella sua versione lattiginosa, con più o meno zucchero, frizzante o allo yuzu (l’agrume giapponese dal sapore puntente il cui sapore ricorda il bergamotto), anche il sake come molti altri spiriti è un mondo, affascinante e complesso, in cui avvicinarsi gradualmente e lasciarsi conquistare.